Cerchiamo di capire bene quali sono i processi e i percorsi del dolore, seguendo un modello e proponendo una soluzione: come evitare il dolore muscolo-scheletrico?
INTRODUZIONE
“La vita è nel movimento”
Aristotele
Che cos’è il movimento se non espressione della vita?
Non esiste essere vivente che sia immobile, allorché anche quando siamo apparentemente fermi, il nostro sangue scorre, i potenziali d’azione percorrono in continuazione gli assoni dei neuroni, il nostro respiro eleva e deprime il torace, il nostro cristallino si accomoda alla luce, i nostri muscoli alternano la contrazione, gli osteoclasti e gli osteoblasti modellano l’osso.
E se alcuni di questi aspetti sono interni e invisibili al nostro occhio, un’altra grande fetta del movimento è invece fruibile all’esterno, poiché l’uomo è un essere d’azione. L’azione è il movimento con l’intenzione, cioè ha il fine di raggiungere volutamente uno scopo specifico.
Dove c’è volontà, c’è il nostro cervello che ne dà forma attraverso i comportamenti. È lui stesso che, con una serie di processi e condizioni mentali, fornisce intenzione, poiché “sa molto sul movimento e poco sui muscoli”.
Che cosa succede però, a questi meccanismi, quando siamo in una condizione di dolore muscolo-scheletrico? Il cervello produce gli stessi pattern di movimento? Oppure qualcosa cambia e produciamo comportamenti differenti?
CENNI DI NEUROFISIOLOGIA CENTRALE DEL DOLORE
Verrà di seguito trattato in un breve paragrafo, gli aspetti neurofisiologici del dolore, solo come cappello introduttivo all’argomento centrale dell’articolo, che riguarda il comportamento nel dolore muscolo-scheletrico.
Iniziamo la nostra breve trattazione sulla neurofisiologia del dolore dai neuroni del corno dorsale del midollo spinale: è qui che terminano le fibre afferenti nocicettive dei tessuti periferici. Vi è una stretta dipendenza tra struttura morfologica e funzionalità del sistema nervoso, per cui specifici stimoli arrivano a specifiche lamine del midollo.
Nel nostro caso, lo stimolo nocicettivo comprende principalmente la Lamina I e la lamina II, dove vi sono sia neuroni specifici nocicettivi che ad ampio spettro dinamico. In realtà le connessioni sono più complesse: anche la lamina V può ricevere sia indirettamente che direttamente afferenze dalle fibre C, oltre che avere rapporti con afferenze viscerali. Questa caratteristica fa della lamina V la principale convergenza del dolore riferito. Le lamine VII e VIII sono anche in grado di rispondere a stimoli dolorifici più complessi responsabili del dolore diffuso.
Nel 1960 si avanzò l’ipotesi che il dolore dipendesse dal rapporto delle fibre afferenti nocicettive e non nocicettive. L’ipotesi produsse la famosa e conosciuta teoria del controllo a cancello (Gate control), secondo la quale le afferenze non nocicettive chiudono il cancello per la ritrasmissione delle informazioni nocicettive verso i centri superiori, tramite interneuroni inibitori.
L’elaborazione ascendente non è comunque sufficiente a spiegare l’esperienza globale del dolore. Difatti il percorso prosegue dal midollo spinale al cervello mediante cinque vie:
- tratto spino talamico: dalle lamine I, V, VII terminano nel talamo controlaterale;
- tratto spino reticolare: dalle lamine VII, VII terminano nella formazione reticolare e nel talamo;
- tratto spino mesencefalico: dalle lamine I, V termina nel mesencefalo, nella sostanza grigia periacqueduttale e nei nuclei parabrachiali dai quali arrivano a connettersi con l’amigdala;
- tratto cervico talamico: dalle lamine III e IV origina dal nucleo cervicale laterale e termina nel talamo;
- tratto spinoipotalamico: dalle lamine I V VII terminano nei centri di controllo sovraspinali del sistema nervoso autonomo.
Dal talamo, le informazioni nocicettive vengono ritrasmesse alla corteccia cerebrale nell’area somatosensoriale primaria, giro del cingolo e corteccia dell’insula.
Come possiamo notare vi sono una moltitudine di strutture deputate a ricevere ed elaborare gli stimoli nocicettivi, tanto che per la neurofisiologia moderna, non esiste un centro del dolore, ma una distribuzione a rete, chiamata matrice del dolore. La matrice del dolore non ha soltanto il compito di elaborare l’informazione nocicettiva nell’esperienza dolorifica, ma modula i circuiti sottostanti alla percezione del dolore. Questo meccanismo viene chiamato modulazione discendente del dolore.
A seconda se le fibre di proiezione raggiungano la parte laterale o mediale del talamo, vengono distinti due sistemi:
- sistema mediale, componente affettivo emozionale del dolore. Spiacevolezza, emozioni negative, sofferenza, rappresentazione del dolore;
- sistema laterale, componente discriminatoria del dolore. Informazioni spaziali, temporali e di intensità del dolore.
Che cosa produce a livello comportamentale questa organizzazione neurofisiologica del dolore?
Dolore e movimento
Lo scopo del dolore è proteggerci: l’esempio più conosciuto è una mano sul fuoco.
Dal momento in cui comincia la percezione termica, il cervello interpreta dapprima un danno potenziale (la bruciatura dei tessuti), successivamente, se siamo ostinati, un danno in atto. Lo stimolo non è più codificato come termico, ma dolorifico.
Questo è essenziale per prevenire la lesione del tessuto e difatti, il dolore ci induce a un movimento, in questo caso, un riflesso da retrazione. Ecco come, molto semplicemente, sono connessi dolore e movimento.
In questo senso il dolore è un importante fattore di apprendimento, uno stimolo incondizionato che attiva un immediato sistema difensivo. Promuove l’adattamento, e successivamente gli individui anticipano il verificarsi di potenziali situazioni dannose richiamando alla memoria l’esperienza compiuta.
Ma vale anche il contrario, per cui quando un movimento ci provoca una sensazione di dolore, tenderemo a non ripetere quel gesto perché, per la matrice del dolore, non va bene allo stato attuale dell’organismo e potrebbe portare a qualche tipo di danno.
E se lo scopo inconsapevole è sempre la protezione e la sopravvivenza, questo secondo meccanismo però genera una forte disabilità, perché limitare i movimenti significa anche modificare lo stato comportamentale di una persona affetta da dolore “muscolo-scheletrico”.
“The body is in danger and action is required” scrive Moseley.
Ma come agisce, aggiungo io, è strettamente soggettivo: uno stimolo dolorifico può essere percepito in modi differenti in circostanze differenti, o in modo diverso nelle stesse circostanze. La variabilità non è soltanto tra le persone, ma anche all’interno dello stesso individuo. Vi sono differenze di etnia, età, cultura e di sesso nella percezione del dolore.
In uno studio condotto su 17 paesi in 6 continenti, con un campione totale di 85.052 adulti, la prevalenza di qualsiasi condizione di dolore cronico era più alta tra le femmine (45%) rispetto ai maschi (31%), e le femmine avevano una maggiore prevalenza di depressione in comorbidità con dolore cronico rispetto ai maschi (Roger B. Fillingim et al., 2009).
Valutiamo e trattiamo così tanto l’aspetto “muscolare” che ci dimentichiamo dei profondi cambiamenti che il dolore produce all’interno dell’organismo:
- Spesso i pazienti con dolore sono smemorati e facilmente distratti, l’attività immunitaria è modificata, l’asse ipotalamo–ipofisi-surrene e l’attività del sistema autonomo è alterato, la funzione del sistema riproduttivo è ridotta e i sistemi visuo-motori sono altamente attivati.
- Quando il dolore persiste, sia il sistema nocicettivo che la rappresentazione centrale del corpo subiscono profondi cambiamenti e di conseguenza, anche le risposte comportamentali.
THE FEAR AVOIDED MODEL
Il modello per evitare la paura (FAM) è stato ampiamente adottato e convalidato nella letteratura sul dolore e sulla terapia fisica.
Descrive come i sintomi dolorosi in alcuni casi possono avviare una serie di risposte cognitivo, emotivo e comportamentali negative che sono poi correlate alla disabilità e anche alla cronicizzazione del dolore.
In uno studio trasversale su 218 persone con lombalgia cronica, sono state condotte analisi di mediazione multiple per determinare il ruolo di paura, catastrofismo, depressione e ansia nel rapporto tra dolore e disabilità (Marshall et al., 2017). La paura, la catastrofizzazione e la depressione hanno mediato in modo significativo la relazione tra il dolore e disabilità (p <0,001).
La paura e l’evitamento si traducono in un modello comportamentale che non è in sincronia con la patologia biomedica sottostante, che può anche essere assente, e che porta a una percezione esagerata del dolore, ma può valere anche nel senso opposto.
Il FAM propone che chi “catastrofizza” il significato del proprio dolore può avere paura e successivamente evitare attività che minacciano il suo benessere.
Il termine catastrofismo è stato coniato per la prima volta da Ellis (1962) per il processo in cui i pazienti ansiosi si soffermano sulle conseguenze negative più estreme e concepibili.
Ne consegue un circolo vizioso, in cui l’evitamento porta a disabilità fisica e depressione che, a sua volta, aumenta l’esperienza di dolore (figura1).

Ma perché alcuni individui sperimentano questa catastrofizzazione del dolore? Cosa rafforza la paura del dolore tanto da evitare qualsiasi movimento che potenzialmente può sviluppare quel sintomo?
- In primis, il parere e il comportamento del medico esplicito ed implicito, può influenzare il paziente sulla sua idea di dolore.
- Credenze culturali sulla vulnerabilità strutturale della colonna vertebrale, come ad esempio la credenza che sia dannosa la flessione del tronco in avanti, condiziona il paziente.
- Auto strategie di controllo del dolore da parte del paziente, se falliscono, possono portare a una inspiegabilità del dolore che aumenta la paura. Ciò che non conosciamo ci spaventa.
- La disinformazione sul dolore, porta il paziente a credenze sul dolore stesso. Malec ha cristallizzato alcune di queste credenze di pazienti in quelli che ha definito “miti sul dolore”. La maggior parte di questi miti si riferisce alle credenze errate che il dolore sia, in primo luogo, un segnale inequivocabile di danno tissutale che inevitabilmente porta alla disabilità, e in secondo luogo che la sofferenza correlata al dolore può essere trattata solo dal punto di vista medico.
La paura legata al dolore e l’ansia può essere meglio definita come la paura che emerge quando gli stimoli legati al dolore sono percepiti come una minaccia principale. La risposta alla paura e all’ansia comprende aspetti psicofisiologici (ad esempio reattività muscolare) comportamentali (esempio fuga e comportamento di evitamento), oltre che elementi cognitivo (ad esempio catastrofismo) (Maaike Leeuw et al., 2007), che si intrecciano tra loro in modo interdipendente.
Nella loro recensione, Vlaeyen e Linton (2000) hanno concluso che l’intensità del dolore non è fattore primario nel comportamento di evitamento o disabilità. Anche se può essere vero che la paura è spesso più invalidante del dolore stesso, attualmente molti sono gli studi che includono l’intensità del dolore tra gli aspetti primari nello sviluppo di determinati comportamenti. Infatti, dolore intenso richiede attenzione. Vari studi hanno dimostrato che l’eccessiva attenzione al dolore è correlata allo sviluppo della paura stessa al dolore.
Dunque, al centro del modello FAM c’è il modo in cui i pazienti interpretano il dolore. Poco importa delle origini dello stesso che comunque sia, nella maggior parte dei casi, sono sconosciute.
Secondo questo modello, non è il dolore stesso, ma il significato del dolore che predice come gli individui si impegnino in questi comportamenti protettivi.
Se il dolore viene interpretato erroneamente, come un segno di grave lesione o patologia su cui si ha poco o nessun controllo, si svilupperà tipicamente – ma non sempre – un’eccessiva paura del dolore che si estende gradualmente alla paura di qualsiasi cosa (come il movimento) che possa generare l’esperienza dolorifica.
A sostegno di questa condizione vi è l’ipervigilanza: la selezione automatica del dolore o delle informazioni relative al dolore a scapito di altre informazioni nell’ambiente.
L’evitamento persistente e l’ipervigilanza sono disfunzionali se protratti a lungo termine. Il comportamento di evitamento porta rapidamente a un’incapacità o riluttanza a perseguire attività di valore, una riduzione delle esperienze positive e, infine, all’isolamento sociale, che forniscono un terreno fertile per il disagio affettivo. L’evitamento può ridurre sostanzialmente il livello di attività fisica, tanto che viene definita una condizione di “sindrome da disuso” (Vlaeyena e Linton, 2000), caratterizzata da un decondizionamento fisico e mentale e dall’adoperare “movimenti protetti”.
Inoltre, secondo la recente letteratura scientifica, la paura legata al dolore potrebbe essere un fattore concomitante al passaggio dal dolore acuto al cronico. Sono stati effettuati studi soprattutto sul mal di schiena e si è visto che, quando qualcuno sviluppa per la prima volta la lombalgia, il percorso di recupero per le persone intrappolate nel modello di evitamento è più incerto rispetto a quelle che non catastrofizzano il dolore.
L’identificazione di pazienti che adottano un comportamento di evitamento è di importanza cruciale per il recupero, per cui vedremo alcuni tools che possono essere utili a riguardo.
The Örebro Musculoskeletal Pain Screening Questionnaire (OMPQ)
Prevede la disabilità a lungo termine e mancato ritorno al lavoro. Ha un punteggio limite di 105.
Predice coloro che si riprenderanno (con una precisione del 95%), coloro che non avranno più assenze per malattia nei prossimi sei mesi (con un’accuratezza dell’81%) e coloro che avranno un congedo per malattia di lunga durata (con un’accuratezza del 67%).
The Fear of Pain Questionnaire (FPQ-III)
Il Fear of Pain Questionnaire-III è uno strumento di autovalutazione sviluppato per valutare paura di stimoli diversi che di solito causano dolore.
Comprende 30 item dai quali è possibile ricavare un totale e tre punteggi di sottoscala (cioè dolore grave, minore e medico). La versione italiana dell’FPQ-III fornisce validi e affidabili punteggi per la valutazione della paura del dolore nella popolazione italiana.
Tampa scale (TSK-11)
La Tampa Scale for Kinesiophobia è ampiamente utilizzata come misura della chinesofobia. I punteggi per TSK-11 vanno da 11 a 44, con punteggi più alti che rappresentano una maggiore chinesofobia e paura di recidive
Fear avoidance beliefs questionnaire (FABQ)
Il questionario sulle convinzioni per evitare la paura è composto da 16 elementi misurare l’acquisizione delle convinzioni di evitamento della paura nelle persone che soffrono di dolore alla schiena e include due sottoscale: attività fisica (FABQ-PA) e lavoro (FABQ-W).
Conclusioni
La conoscenza del fear avoided model è di importanza fondamentale per il trattamento del dolore muscolo-scheletrico e di un buon recupero da parte del soggetto alle sue attività abituali. Non solo si può in un certo senso predire la disabilità, ma possiamo fornire un significato all’esperienza che sta avendo la persona.
Grazie a questo modello, possiamo avere una visione biopsicosociale dell’evento dolorifico. Allargare gli orizzonti ci permette un approccio più globale al trattamento del dolore, e ci ricorda che abbiamo di fronte una persona con il suo vissuto, le sue emozioni, i suoi comportamenti e la sua sofferenza.
Diamo un senso al dolore, piuttosto che cercare nel dolore il senso della sua sofferenza.
Simone Antonielli
Note sull’autore
Laurea triennale in Scienze Motorie e Sportive, Università degli studi dell’Aquila
Laurea magistrale in Scienze Motorie Preventive e Adattative, Università degli studi dell’Aquila
Certificazione “Functional and postural recovery” presso Training Lab Italia
Certificazione “Strenght and Conditioning Buzzichelli edition” presso Training Lab Italia
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Bibliografia
- Behavioural activation and inhibition systems in relation to pain intensity and duration in a sample of people experiencing chronic musculoskeletal pain. Nina Sanson, Sylvia Hach, Robert Moran, Jesse Mason, Musculoskeletal Science and Practice, 2020.
- A pain neuromatrix approach to patients with chronic pain. G. L. Moseley, Manual Therapy 2003.
- The Fear of Pain Questionnaire: Factor structure, validity and reliability of the Italian translation. Marialaura Di Tella, Ada Ghiggia, Silvia Testa, Lorys Castelli, Mauro Adenzato, Plose One, 2019.
- Making Sense of Low Back Pain and Pain-Related Fear. samantha bunzli, anne smith, robert schütze, ivan lin, peter o’sullivan, journal of orthopaedic & sports physical therapy, 2017.
- Physical activity and the mediating effect of fear, depression, anxiety, and catastrophizing on pain related disability in people with chronic low back pain. Paul W. M. Marshall*, Siobhan Schabrun, Michael F. Knox, PLOS ONE, 2017.
- The Fear-Avoidance Model of Musculoskeletal Pain: Current State of Scientific Evidence. Maaike Leeuw, Marielle E. J. B. Goossens, Steven J. Linton, Geert Crombez, Katja Boersma and Johan W. S. Vlaeyen, Journal of Behavioral Medicine, 2007.
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- Sex, Gender, and Pain: A Review of Recent Clinical and Experimental Findings. Roger B. Fillingim, Christopher D. King, Margarete C. Ribeiro-Dasilva, Bridgett Rahim-Williams, and Joseph L. Riley, J Pain, 2009.